Ecco, a star qui di fuori e aspettare un responso non è bello. Del resto ora dormi e io non ti posso essere di aiuto. Siamo partiti questa mattina, di buon ora, per raggiungere la clinica dove, si spera, ti faranno star meglio. Dai, non è poi così grave, anche se io, dentro, ne faccio una tragedia. Sarà che ne hai già passate tante e ora, ogni minimo evento al di fuori della banale normalità, diventa gigantesco.

Sarà un po’ anche la mia data di fabbricazione, come dico sempre, che non mi aiuta a sintetizzare tutto come un banale accadimento della vita e, negli anni, mi sono altamente sensibilizzata.
Reggo, reggo, oh! sì, che reggo. Sempre sul fronte, sempre battagliera, ma con una sensibilità molto accentuata che mi porta a essere anche un po’ negativa, delle volte.

Il tuo pelo è serico. Bianco e tigrato. Gli occhi grandi e scuri. Lo sguardo temibile, ma l’animo è gentile e estremamente amorevole. Son passati solo pochi minuti, dacché ti ho visto barcollare e poi sederti. Ti accarezzo la testa e mi guardi con la coda dell’occhio. La tua espressione è: “ma sei certa che questi qui possano farmi quel che stanno facendo?”.  Sì, non solo lo possono fare ma lo devono fare. Hai una forma neoplastica diagnosticata a ciel sereno con una ecografia che doveva solo assicurare una avvenuta guarigione. E’ lì, sulla milza. Due centimetri quadri di terrore. La soluzione, spero definitiva, è l’asportazione dell’organo che, di per sé, sembrerebbe non essere ancora sofferente. Però, mi hanno spiegato che se tu ti dovessi appoggiare a un muro con un po’ più di fervore e visto che ti piace lasciarti andare a terra con un tonfo…ecco: si potrebbe avere un rilascio enorme di sangue e…ciao…

Vedi? E’ per questo che ti lascio lì, sul tavolo di metallo e esco, dandoti un’ultima amorevole occhiata. Hai cercato di combattere un pochino la sostanza che ti hanno iniettato. Dormi, bello, dormi. Quando ti sveglierai sarà tutto superato e veloci, torneremo a casa, nel nido sicuro.

Mi guardo intorno e vedo tanti musi spaesati. Qualcuno trema, qualcun altro abbaia, e si sentono anche dei miagolii ovattati. C’è chi cerca lo sguardo rassicurante del proprietario, c’è chi cerca disperatamente la via della fuga. Ci sono tante porte qui, ma ognuno di voi ha già individuato quella dell’uscita.
Osservo tutti. Il piccolo meticcio ha quattro colori differenti. Musino affilato, lunghezza del tronco…uuuuhhhh! ma non finisce più… Il lupoide nero, di una bella altezza, ha all’altro capo del guinzaglio una signora di altri tempi. Lei ha un berretto di lana multicolore e il collo della camiciola bianca spunta da un cappotto con la martingala alta. Il meticcetto ha una gambina posteriore tremula. Tutto il corpo fermissimo, impiantato, e la zampa tremula.  Si danno un’occhiata lui e il lupetto e, nonostante in altra occasione sarebbero acerrimi nemici, pare passi tra loro una linea di intesa, un accordo per far sì di avvicinarsi all’ uscita. Mi è persino parso che si siano fatti l’occhiolino. Il Maltese microscopico in braccio alla ragazza guarda adorante il micio nel trasportino, ma non è ricambiato.
Grazie a voi per avermi distolto un po’ dal pensiero greve.

Basta! Finito il cinema…
Mi chiamano. Mi sbrigo. Raccolgo borsa, telefono e sono in piedi come un fuso. Il viso rassicurante del medico indica positività. Non ha la faccia di qualcuno che mente. E’ davvero andato tutto bene.
Piccoletto, dai, torniamo a casa! Sei un grande.

Dedicato a Ade, American Staffordshire Terrier.